venerdì 18 maggio 2012

Terreria e isteore













"...Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore.  Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle

In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.
L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati, Perseo che non rivolge il suo sguardo sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo. Ecco che Perseo mi viene in soccorso anche in questo momento, mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica. Meglio lasciare che il mio discorso si componga con le immagini della mitologia. Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.

Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse. In alcune versioni del mito, sarà Perseo a cavalcare il meraviglioso Pegaso caro alle Muse, nato dal sangue maledetto di Medusa. (Anche i sandali alati, d’altronde, provenivano dal mondo dei mostri: Perseo li aveva avuti dalle sorelle di Medusa, le Graie dall’unico occhio).

Quanto alla testa mozzata, Perseo non l’abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma invincibile nella mano dell’eroe: un’arma che egli usa solo in casi estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di se stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti . Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tendendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello..."



(Italo Calvino - "Lezioni Americane: Sei proposte per il nuovo millennio"
I. Leggerezza)



Per chi vuole leggere, è un'ottima lettura.
(Tanto che qualcuno potrebbe lamentarsi, della mia inserzione.
Così è la vita signori, vi danno solo l'anteprima, poi vi lasciano ai film di terza serie).

Quello che avete appena letto tuttavia non è un testo a cui riferirsi, quanto più una notazione bruta di quello che sta passando sotto i miei occhi in questi giorni.
Non ho potuto fare a meno di abbandonarmi a un intervallo tra studi incrociati ed ansie sovrapposte.
Per non farlo scappare l'ho riempito di un libro, che per caso si è chiamato "Lezioni americane"

Ora nel confronto impari tra il maturo stile di uno scrittore maggiore (avete mai chiesto a qualcuno cosa ne pensa di Calvino? Io ho trovato sempre le risposte quantomai curiose. Vanno tutte sul genere: "Mah, un uomo tranquillo e simpatico, ma a volte proprio non mi piace") e la mia confusa raccolta post-modernista di idee (guardate già quanto è disordinato questo periodo, con tutte queste parentesi, peggiore della mia stanza da letto) dovrei cercare di rimettere in parole una riflessione intorno alla scrittura, che mi è necessaria per riuscire a comprendere tutto quel che volevo scrivere in questi giorni.

Non riesco neanche bene a capire da dove dovrei partire, se dall'incipit di Calvino o dai miei sentimenti ancora informi.
Probabilmente devo solo buttarmi al centro del discorso per sorprendervi.

Le righe iniziali, in particolar modo, di questo intervento, mi hanno infilato un dito nel costato e hanno cominciato a visitarlo dall'interno.

"...
Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle.
In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa..."






Ritornato in circolo all'improvviso il ricordo della mia insoddisfazione, che ritorna ciclica ogni volta che tento di scrivere per un tempo più lungo di un giorno, per un testo più lungo di tre pagine dattiloscritte.
Non c'è niente che mi lasci più snervato poi di quello stupido riportare che per settimane ho fatto di attualità mondana. Tutto parte dall'entusiasmo, dal bisogno, dalla voglia di lettura del mondo. Ma nel registro delle notizie e nello sgusciare insidioso dei giorni, piano piano in una scena degna dell'Ecclesiaste sento anche io la sensazione a cui ora posso dare il nome della pietrificazione.
Ed ora è come se tutto questo fosse più veloce e automatico, un mondo pieno di opinioni e di parlamenti, un mondo pieno di eventi noti, un mondo che corre e vola. Un mondo di rumore e raggiungimenti, un mondo pratico che ad ogni passo diventa più anziano e sclerotico.
Davanti alla nostra porta, chili e chili di merda impietrita in cui non si riesce quasi più a rimestare per cercarne il salvabile.
A un certo punto mi sento fermo di fronte a un oceano non di silenzio, ma di rumore massimo, che in teatro è dire lo stesso, ma con molto più fastidio per le orecchie e il cervello.
Se il silenzio si riempie con un solo rumore, il rumore totale di cosa ha bisogno?
Di un intenzione che lo sovrasti e lo annulli.
Ma il rumore totale è ormai così saturo in ogni canale (lento Moloch divoratutto) che quale intenzione si dovrebbe avere per annullarlo? Una differenza alla sua pesante mole, al suo pastoso avvinghiare e ributtare.

Ma se posso sognare sulle istanze di Calvino in merito alla leggerezza come salute dello scrittore (e non sono parole che lascerò cadere, tanto mi invitano allo sforzo) ho il timore a chiedermi se sarà sufficiente a sfuggire alla forza di gravità del pesantissimo mondo della comunicazione totale.
In fondo un Calvino al limite della sua vita, così come un Montale, potevano nutrire ancora una solida fiducia nella differenza e nella lettera, nonostante già Montale fosse sempre più aduso al pessimismo di quella che vedeva come "fanghiglia quotidiana" da cui era quasi impossibile estrapolare qualcosa di letterario.
Era lo scorcio degli anni '80.
Ancora esisteva qualche vuoto.
Ora è tutto così tremendamente pieno, di una cosa e del suo contrario.

Proposte per il nuovo millennio.
Magari serve comunque qualcosa, allenarsici, richiamare, ricordare.
Mi fa quantomeno piacere credere che la rivolta efficace parta dal ritorno a un allenamento del corpo ed uno della mente. A un tentativo di costruzione differente da un profitto immaginario di economia.
Se sia la persona adatta a dedicarsi a questo tipo di proposizioni neanche lo so.
Ora come ora per esempio, non so neanche più a chi mi sto rivolgendo, a me, al mio pubblico, alla mia coscienza in forma di grillo (AAAAAAH; GRILLO!) o al narratore onniscente, mezzo/onniscente che prende appunti.
Ma se c'è qualcosa a cui devo rinunciare da tempo è il mio spirito rinunciatario, di fermarmi e non fare tutto quello che mi appare enorme, imbattibile, inutile.
Convinzione nutrita da niente altro in fondo che l'idea dura a morire che possa esistere una vittoria, che possano esistere il bene superno e il male infimo in due squadre ben definite, e che l'idea che ho di vittoria possa essere quella più auspicabile e duratura.
Una piccola creaturina dai piedi pelosi che non lascia mai la sua casa comoda per paura della strada e per la convinzione che non ci sia niente oltre il giardino, la foresta e la palude.
Devo ribellarmi al torpore e mettermi in strada, per poi chiedermi ancora da dove sarò arrivato, come l'ho fatto, e quale strada si srotola dietro di me.

Passerò qualche entrata a scrivere solo cercando di seguire qualche consiglio di un vecchio.
Niente cronaca se è possibile. Se non la cronaca eterna e fresca di una umanità antica.

Per un po' mi dedicherò a questo.



Molto dopo, morirò.


(In mezzo, devo decidere)

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